Se l’occhio non si esercita, non vede. Danilo Dolci
All’ inizio, qualche anno fa, furono i cervelli in fuga; persone con un percorso di studi molto qualificato, che andavano all’estero a cercare lavoro per una maggiore soddisfazione, una buona paga e una migliore qualità della vita.
Il possibile ricambio per la nostra classe dirigente che invece abbandona il paese. Un campanello d’allarme per chi non pensa e non parla solo della presunta invasione dei migranti dall’Africa. E così ecco arrivare le prime inchieste giornalistiche e addirittura leggi e leggine per farli tornare in Italia, ricordando ad ogni piè sospinto, quanto costa ai contribuenti italiani la loro formazione scolastica e universitaria.
Tutto giusto e vero, ma a noi sembra che manchi qualcosa in questa lettura della nostra emigrazione. I nuovi flussi migratori interessano soprattutto i giovani, ma questa non è una novità sconvolgente. Non è che nelle migrazioni oceaniche verso le Americhe, a cavallo fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, partissero anziani contadini. Lo stesso vale per le grandi migrazioni verso il triangolo industriale del nord negli anni Sessanta del secolo scorso. La novità è invece l’alta percentuale di emigranti con un alto livello di formazione (pur se restiamo agli ultimi posti fra i paesi sviluppati rispetto ai livelli di scolarizzazione, l’Italia di oggi non è comparabile con quella di ieri). Secondo gran parte dei lavori di ricerca, il numero di emigranti ‘altamente qualificati’ si aggira intorno al 30% di chi parte. Cifra enorme (di gran lunga superiore alla percentuale di ‘altamente qualificati’ del nostro paese) ma in ogni caso una minoranza rispetto al gigantesco flusso migratorio. Di questi altri, della maggioranza, quasi nessuno parla.
Quelli che, indipendentemente dal livello di formazione, vanno a fare i commessi, i meccanici, i pizzaioli, gli insegnanti. Che spesso trovano un lavoro precario, come in Italia, ma più facilmente e meglio retribuito.
Sembra quasi che se ne provi vergogna a parlarne. Perché non danno, in apparenza, l’immagine “splendida splendente” dell’Italia vincente? O perché parlando di loro si dovrebbe ammettere un fallimento totale della politica economica italiana degli ultimi 30 anni?
E ancor meno si parla di quelli che giovani non lo sono più. Della percentuale, in crescita, di chi ha più di 50 anni e parte perché, espulso dal sistema produttivo, si trova nel dramma della disoccupazione a un’età in cui reinserirsi nel mercato del lavoro è estremamente difficile. Persone tra le quali si trova una quota significativa di ‘nuovi italiani’, immigrati che nel nostro paese si sono inseriti, hanno lavorato e vissuto potendo infine prendere la cittadinanza, e che poi, con l’esplodere della crisi, hanno perso il lavoro.
Questa parte della nostra emigrazione è quella che a nostro parere più di altri andrebbe supportata, perché ne è l’anello più debole.
Che non ha tempo per seminari e apericena di networking. Che parte con pochi euro in tasca e senza genitori che li possano aiutare economicamente. Che spesso conosce poco il paese di arrivo perché non fa parte della generazione Erasmus e perché a questo paese arriva magari da un altro paese straniero in un nuovo flusso migratorio che è precario anche in questo. E che spesso finisce vittima di caporali italiani all’ estero, che approfittando della loro situazione, li sfrutta, non li paga e li inguaia ancora di più.
Quelli che presi dalla disperazione, a volte finiscono a dormire per strada e nelle chiese e che non hanno i soldi nemmeno per tornarsene a casa e a cui spesso non spettano neanche gli aiuti sociali dei loro nuovi paesi, che li considerano un peso eccessivo per i loro sistemi di Welfare.
Quelli che hanno nella via dell’emigrazione, non una scelta, ma l’unica soluzione rimasta per costruirsi un futuro.
Sarebbe chiedere troppo alle istituzioni italiane di occuparsi di loro, fornendo magari le informazioni minime per prepararli all’inizio del percorso migratorio e rendere meno traumatico questo passaggio?
O, magari, pensare e attuare politiche di sviluppo del paese in modo da dare anche a loro la possibilità di rientrare in Italia, se volessero?
Le associazioni degli italiani all’ estero hanno storicamente svolto un ruolo importante di supporto agli emigrati. Oggi, che le strutture della nuova emigrazione faticano a consolidarsi e quelle della vecchia emigrazione spesso faticano a compiere il necessario ricambio generazionale, il supporto è spesso frammentario o assente e costringe molti a fidarsi di notizie e informazioni non verificate nei vari gruppi facebook.
Noi crediamo che per le associazioni storiche che si occupano dell’emigrazione questa sia la sfida, questo sia il senso di un rilancio: la capacità di comprendere la realtà di questi flussi e di poter svolgere per loro un ruolo di supporto. Fuori da questa sfida resta un ‘vivacchiare’ burocratico, una sostanziale inutilità di questo associazionismo, un ruolo di testimonianza di un passato ‘glorioso’. His Rhodus, hic saltus.
We shall overcome!
Pietro Lunetto, Marco Grispigni