CORONAVIRUS: VITTIME E CARNEFICI DELL’INFODEMIA SISTEMICA

di Roberto Amabile

Avrei preferito che sui giornali comparisse l’appello di António Guterres, segretario generale delle
Nazioni Unite, sull’epidemia di COVID-19, infezione da nuovo coronavirus. Guterres ritiene sia
ancora possibile contenere la malattia ma se non si fa di tutto può andare fuori controllo, perciò
sprona tutti i paesi a fare il possibile per prepararsi contro l’epidemia e per contenere la malattia,
«naturalmente rispettando il principio di non discriminazione, senza stigmatizzare, rispettando i
diritti umani». Si sarebbe potuto aggiungere che stigmatizzare le persone infette peggiora la
situazione.
Avrei preferito che almeno si dessero in prima pagina quei rudimenti di profilassi che ad es.
“EpiCentro”, il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica, ha riassunto in infografiche. Titoli
semplici quanto efficaci “Lavatevi le mani” oppure “Coprite bocca e naso quando tossite o
starnutite” avrebbero onorato l’insostituibile funzione sociale dell’informazione in casi come
questo.
E invece…

Ci si è dati un gran daffare sia sminuendo oltre il dovuto la portata dell’epidemia, sia soprattutto
allarmando in modo ingiustificato la popolazione.
Ad esempio, sabato 22 febbraio i più diffusi giornali generalisti in Italia sbattevano certi titoli in
prima pagina che, forse meritoriamente, hanno ricevuto accostamenti alla carta igienica. È una
robaccia che, se non penalmente rilevante, negli effetti ha sì procurato allarme ingiustificato. Invece
di dare gli strumenti (anche critici) per affrontare l’epidemia, la stragrande maggioranza dei mass
media tradizionali ha confezionato sensazioni e non informazioni. «Il cronista del disastro fornisce
solo apparentemente “informazione”; dietro il travestimento della notizia offre emozioni
preconfezionate dirette ad una ricezione priva di composizione critica» (così scrive Ugo Rosa su
“gli Stati Generali” e autore dell’accostamento alla carta igienica). Va certamente rintracciata una
grandissima responsabilità di direttori e editori (e politici) dell’“allarmismo consolatorio”. Come
pure ogni tanto sarebbe bene che un titolista sottocognitario obietti qualcosa contro questo
mercimonio di passioni tristi.

Bisognerebbe però abbattere il sistema che produce questi comportamenti.
Le informazioni che circolano sono troppe, non abbiamo il #tempo e l’#attenzione per elaborarle —
beni preziosi messi a profitto da un sistema criminale — e non sono ancora così diffuse e accessibili
delle macchine mangia-informazioni che ci permettano di pre-digerire il significato di ciò che
circola. L’individuo iperconnesso ma isolato crea ansie tipiche come la FOMO e perde lucidità per
infossicazione.
Quando la bulimia social diventa talmente diffusa e contagiosa tale da aggravare il quadro
epidemiologico di una malattia infettiva si parla di infodemia. L’infodemia non è creata e subita dai
soli e soliti complottisti che (più o meno volutamente) non si sforzano di capire il sistema e allora
proiettano i propri rigurgiti in una realtà inventata a propria immagine e somiglianza, più ansiosa in
generale ma più rassicurante perché (auto)conferma le proprie paure. Pare emergere questa lettura
dall’articolo del Sole 24 Ore che riporta l’attenzione primariamente sulle fake news quando scrive
di infodemia.

All’infodemia però non si sono sottratti, più o meno consapevolmente, nemmeno gli stessi «esperti»
che sotto pressione social si sono affrettati a dire qualcosa e subito. Vale sia per la dr. Maria Rita
Gismondo, direttore della UOC di Microbiologia e Virologia dell’ospedale “Sacco” di Milano, sia
per quel tizio sessista, raziosuprematista e ignorante del San Raffaele per cui non mi vengono epiteti
e chiedo l’aiuto del pubblico.

Perfino chi ha studiato epidemiologia si dimentica che un giudizio sulla “pericolosità” di una
malattia infettiva non può fondarsi solo sulla mortalità della stessa, ma deve considerarne la
contagiosità. Si perde del tutto l’aspetto dinamico del contagio: sarebbe come fare la recensione di
un film su un fermo immagine. Teniamo quindi a mente la contagiosità quando facciamo queste
considerazioni, posto pure che il virus appare più contagioso della SARS secondo prime rilevazioni.
A questi errori madornali vanno aggiunti errori meno percettibili ma non per questo drammatici su
come si stima la mortalità a epidemia in corso. Questo mio paragrafo segue le linee qui raccolte.
Stimare la mortalità non è semplice. Può sembrare allettante fare il rappporto tra morti accertate e
casi accertati, ma il numero risultante può sbagliare di ordini di grandezza il tasso di mortalità
effettivo (cioè sopra o, più facilmente per numeri alti, sotto di 10, 100, 1000 volte). Esistono vari
stimatori discussi nella comunità scientifica, ma non è detto che funzionino per ogni caso e in ogni
situazione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) aveva fornito qualche settimana
fa un tasso di mortalità provvisorio del nuovo coronavirus al 2%. Per raffronto, l’influenza
stagionale (in USA) è allo 0,1% e la SARS a fine epidemia era al 9,6%. Ma non dimentichiamo che
a epidemia SARS in corso, l’OMS aveva stimato un tasso di mortalità al 4%, quindi meno della
metà di quello poi riscontrato a fine epidemia. Anche per questo, secondo la dr. Maria Van
Kerkhove, epidemiologa e direttore tecnico del programma di emergenza sanitaria MERS-CoV (la
sindrome da coronavirus) dell’OMS, è veramente troppo presto per dare un valore definitivo al
tasso di mortalità complessivo di questo nuovo coronavirus.
Questo vale anche per stimate persone di cui ho letto recentemente commenti preziosi, a cui
indirizzo alcune osservazioni in ordine sparso:
– la chiusura delle scuole è una profilassi valida meno per i bimbi e più per gli anziani in casa di
bimbi contagiosi (anche asintomatici, anche non infetti!);
– il 4% di infetti in terapia intensiva possono diventare un’enormità di persone in relazione alle
possibilità logistiche e in proporzione ai posti disponibili e attrezzati (molto meno di 530 in tutta
Italia);
– le restrizioni alla mobilità da regioni “povere” verso regioni “ricche” sono profilassi di classe
perché i casi dentro il perimetro aumentano di più rispetto alla diminuzione dei casi fuori dal
perimetro (e quindi aumentano complessivamente il numero dei casi), ma le restrizioni da regioni
“ricche” a regioni “povere” sono scientificamente sensate e meriterebbero una valutazione.
Ma non è questo il punto, né sono questi i punti che le stimate persone volevano sollevare.

La realtà è poliedrica e si può vedere da varie angolazioni. Ridurre la complessità può aiutare, ma
un eccesso di riduzione significa prendere cantonate. Ognun investirà sé ə stessə dove meglio crede
di essere utile.
Riguardo alle “narrazioni”: non credo che sottolineare il problema “epidemico” della catastrofe
ambientale ci faccia gioco se un altro problema epidemico può accelerare troppo qualora non si
adottassero misure di profilassi. È una questione di efficacia dell’intervento: tu stai sul pezzo
ambientalmente, io sto sul pezzo viralmente. Altrimenti è un approccio parente al benaltrismo.
Non abbiamo bisogno di contenderci i riflettori dell’informazione che procede per news items e non
per priorità che decidiamo noi in base a criteri più “umanamente” rilevanti: vi ricordate un titolo di
giornale dove si parla di bombe atomiche?
L’adagio di diventare media invece di elemosinare un trafiletto è sempre valido.
Riguardo alle “letture”: ci manca un modo per mettere insieme far funzionare le intelligenze
collettive, le esperienze e le sapienze che abbiamo in giro.
Qual è invece la tendenza? Che ciascun gruppo o individuo arriva alle proprie conclusioni e non le
offre agli altri per farne sintesi, ma per rendere egemonica la propria lettura (e quindi la propria
agenda politica).

Gli ultimi esperimenti politici — e mi riferisco non necessariamente a quelli con proiezioni
istituzionali pur velleitarie — sono implosi nell’irrilevanza, alla ricerca di “narrazioni” che
rendessero le loro formule alchemiche rilevanti. Bisogna invece passare dall’alchimia alla chimica e
trovare il modo di fare sintesi di queste letture.
Si è parlato tanto di “narrazioni” e le “letture” sono finite fuori dalla finestra. Finché non saremo
capaci di fondare controsaperi all’altezza di questo, subiremo le narrazioni istituzionali (e quindi le
letture che le producono). Finché non «comprendere[mo] le sfide locali e globali che questi
fenomeni e il modo in cui affrontarli pongono», il messaggio che sovrasta questo commento è di
Guterres segretario dell’ONU, uno che non fa piacere a chi ha a cuore gli esperimenti di
autodeterminazione in Europa e nel mondo.